Nell'articolo "Il capitalismo e l'immigrazione operaia" (29 ottobre 1913), quando Lenin parla di "significato progressivo" della migrazione dei popoli, per certo non aveva in mente l'attuale schema di riproduzione del fenomeno, bensì quello del suo tempo, rispetto al quale la rottura delle "barriere" e dei "pregiudizi nazionali" tra gli operai era auspicabile in ragione del rischio dello scatenarsi della guerra imperialista (che per divampare avrebbe soffiato sul fuoco di quegli opposti pregiudizi), e che puntualmente si scatenò pochi mesi più tardi. Tra l'altro Lenin cita il caso degli emigrati russi nei paesi europei (in particolare in Germania) e in America, quali rappresentanti di punta di quel "significato progressivo"; questo perché quella generazione di operai si era forgiata attraverso gli scioperi di massa e le rivendicazioni salariali della prima rivoluzione russa del 1905, fattore di non poco conto che andava opportunamente valorizzato altrove, al di fuori dei confini nazionali.
Siccome oggi quei pregiudizi sembrano alquanto stemperati rispetto al secolo scorso (ovvero la guerra è in corso, ma sotto altre forme), e non essendo pervenute notizie di c.d. "rivoluzioni" sorte di recente nel continente africano (ovvero dei stravolgimenti sociali e politici progressivi, tali da forgiare schiere di lavoratori coscienti e compatti), sembrano proprio cadere quei presupposti di "significato progressivo" del fenomeno nel senso leninista, che appunto, si riferiscono a tutt'altro contesto storico.