Riflettevo sulla scritto «Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito Achilpa delle origini. Contributo allo studio della mitologia degli Arunta» (1952), in cui l'antropologo Ernesto De Martino traccia un profilo socio-psichico della tribù aborigena dell'Australia centrale, gli Arunta, dedita perlopiù a un'economia di sussistenza (basata sulla caccia e la raccolta). Il forte legame dell'aborigeno con la propria «patria» (materiale e simbolica) è connotato dalla credenza che l'anima che alberga in ognuno di essi, ancor prima di incarnarsi in un corpo abitasse da sempre quei luoghi natii; sicché, per l'Arunta «quel» luogo è la patria della sua anima, e dopo la vita corporea, questa farà ritorno nei medesimi luoghi. Da qui deriverebbe la reticenza degli Arunta ad allontanarsi dal territorio patrio. L'«angoscia territoriale» degli Arunta può essere letta come una sovrastruttura psichica connessa ai rapporti di produzione di riferimento, ossia di un'umanità nomade, costretta suo malgrado a peregrinare per soddisfare i bisogni materiali di riproduzione della vita individuale e associata, nonché della società stessa. Il mito assume allora una funzione di «riscatto». Quando un gruppo Arunta (De Martino parla delle antiche marce da Sud verso Nord) giunge su un nuovo territorio ripropone l'atto della creazione – un nuovo mito della fondazione. Il palo totemico «kauwa-auwa» rappresenta l'«asse del mondo», un sostegno che divide il cielo dalla terra, che impedisce alla volta celeste di collassare sulla terra. È un riscatto dall'angoscia del peregrinare, dall'incertezza del nomadismo. Il mito anNonea la storicità del fenomeno migratorio e stempera l'incertezza dell'ignoto; il «kauwa-auwa» viene conficcato nel terreno e issato, riproponendo l'iterazione del «centro», della «patria assoluta». L'atto di peregrinazione viene de-storificato, sottratto alle contingenze di quegli incerti rapporti di produzione. Se il totem è spezzato, crepa con esso l'«asse del mondo», restituendo l'umanità sciagurata alla storia. Ragionando sull'attuale contesto globalizzato, riflettevo pressappoco così. Finché il malessere connesso alla de-territorializzazione poteva essere risolto, sublimato, mediante il piano mitico-rituale – come nel caso degli Arunda; De Martino parla però di simili «angosce» ravvisabili nella maggioranza degli aggregati umani reggentisi sugli stessi rapporti di produzione, financo nei contadini lucani (cfr. «Il campanile di Marcellinara») – lo stesso malessere era (sempre) temporaneamente vinto. Oggi che la società contemporanea ha progressivamente eroso le antiche forme rituali per dare spazio all'occidentalizzazione dello stile di vita, riaffiora in tutta la sua volontà di potenza quell'atavica «angoscia», in particolar modo se riflettiamo sulle migrazioni di massa ingenerate dagli attuali rapporti di produzione. Tra poco più di trent'anni il solo Continente africano vedrà raddoppiata la propria popolazione, la cui maggioranza sarà giocoforza – di questo passo –, costretta o invogliata all'immigrazione. De Martino, che aveva studiato solo gruppi umani quantitativamente modesti, aveva anticipato che la perdita di orientamento materiale del proprio territorio era la causa diversi tipi di alienazione e di nevrosi (nello scritto a cui ho fatto riferimento De Martino parla di «dromofobia» e diffusa «nevrastenia»). Varrebbe la pena di fare qualche raffronto, e qualche dovuta proporzione su questo fenomeno (quantitativamente e qualitativamente) di tipo nuovo. Su questo campo potrebbe giocarsi la partita futura dell'umanità – e della sua stabilità psichica.

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